Sala 6 L'abito ritratto, parte II
Sezione 1 La veste di Eleonora Malaspina
Eleonora Malaspina figlia di Antonio Alberico II e di Lucrezia d’Este muore prematuramente nel 1515. Il marito, Scipione Fieschi, nel 1516 commissiona allo scultore Pietro Aprile da Carona (località Svizzera vicino a Lugano) il monumento funebre in memoria della giovane moglie, oggi visibile all’interno del Sepolcreto della Cattedrale di Massa. I documenti relativi alla commissione all’Aprile non ci aiutano a capire quanto fedelmente lo scultore abbia dovuto, o potuto, rappresentare il volto della defunta e se si sia ispirato ad un ritratto, dato che la commissione è avvenuta un anno dopo la morte. Per questa ragione e per l’aspetto che la scultura ha assunto dopo il restauro del 1981, alcuni storici hanno messo in dubbio che si tratti proprio del monumento di Eleonora.
Nonostante le numerose vicissitudini che il monumento ha subito, i ripetuti spostamenti all’interno dell’edificio di culto e le integrazioni delle parti mancanti, realizzate durante il restauro, l’abito che riveste la figura è ancora per la maggior parte originale, e presenta alcuni elementi che indirizzano verso una datazione precisa. La veste è caratterizzata dal verticalismo tipico della moda del Quattrocento, ma in realtà i particolari strutturali (scollo, camicia, maniche) e la modalità di sovrapposizione dei diversi elementi, avvicinano la veste alla versione più tarda della camora, attestata agli inizi del Cinquecento, epoca che corrisponde a quella della morte di Eleonora. Il confronto con le immagini del volume qui esposto, che risalgono al 1517, è estremamente calzante e testimonia come la moda si sia sempre diffusa al di là dei confini geografici.
Io. Frobenius lectori S. D. en habes optime lector absolutissimi doctoris Aurelij Augustini, opus absolutissimum, de Ciuitate dei, magnis sudoribus emendatum ad priscae uenerandaeque uetustatis exemplaria, per uirum clarissimum ... Ioan. Lodouicum Viuem Valentinum, .... - Basileae : ex officina nostra, pridie Calendas Septembreis 1522.
Il volume è stato stampato nel 1522 a Basilea nella bottega del celebre stampatore Johan Froben.
La ricca cornice xilografica a piena pagina reca, in alto a destra, sotto la citazione Tandem vipera sibilare desisti (tratta da Lucio Anneo Floro, Epitome Rerum Romanorum), la data della xilografia, 1517, e il monogramma AH, ovvero Ambrosius Holbein, fratello del più noto Hans Holbein il Giovane, pittore e incisore tedesco, anch’esso collaboratore della bottega di Froben. Ad Hans Holbein si deve infatti il disegno della marca tipografica dello stampatore, raffigurante il caduceo, tradizionale simbolo del dio greco Ermes, rappresentato al centro della pagina.
Circondano il caduceo virtù teologali e cardinali nonché vizi e scene di battaglia ed una seconda citazione che rimanda ancora una volta al mondo classico, riscoperto e fortemente amato dagli umanisti e uomini dotti del XVI secolo: Apelles olim huiusmodi pictura Calumniam ultus est (Apelle si vendicò della calunnia [che aveva subito] con questo quadro). Il riferimento è al dipinto che, secondo Luciano di Samosata, Apelle dipinse nel IV sec. a.C. in risposta ad una calunnia subita e che sembra rappresentasse, come anche l’illustrazione che vediamo, allegorie di sentimenti umani.
Sezione 2 Una veste per la pupattola
Le poupées de mode erano bambole o piccoli manichini che i sarti inviavano alle clienti più prestigiose, per mostrare le nuove creazioni alla moda. La diffusione delle poupées de mode raggiunse l’apice nel Settecento, come ci
ricorda il celebre commediografo Carlo Goldoni: “In principio d’ogni stagione, si vede a Venezia, in Merceria, un fantoccio abbigliato di tutto punto, chiamato la Piavola di Francia. Questo è il prototipo a cui le donne si uniformano, ed è bella ogni stravaganza, purché si parta da questo originale” (Memorie, 1787). In questa sezione della mostra è esposta una pupattola databile al XVII–XVIII secolo e realizzata in forma di manichino snodabile, in legno dipinto con raffinati dettagli decorativi. Grazie al progetto di tesi di Valentina Lisi, diplomata all’Accademia di Belle Arti di Carrara, è stato possibile
realizzare un nuovo abito e una nuova parrucca per la pupatola, che ne era rimasta priva.
Si è scelto come modello il ritratto a figura intera di Teresa Pamphilj Cybo (1673 circa), di cui sono state fedelmente ricostruite le vesti e l’acconciatura.
Le vesti donate alla Madonna
Teresa Pamphilj Cybo (Roma, 1654 – Massa, 1704) giunse a Massa nel 1673 dopo il matrimonio col futuro duca Carlo II Cybo Malaspina: fu probabilmente nei preparativi delle nozze che J.F. Voet ne dipinse il bellissimo ritratto a figura intera, oggi in collezione privata. In questa immagine la giovane si presenta in tutta la sua opulenza e raffinatezza, al passo con le tendenze più innovative e sensuali della moda francese. Teresa indossa il mantò, l’abito introdotto a Parigi negli anni settanta del Seicento e divenuto caratteristico del guardaroba femminile dell’epoca. Si tratta di una veste formata dal corpetto e dalla sopragonna, che veniva drappeggiata ai lati per mostrare il sottanino cioè la gonna vera e propria. La sopragonna del mantò, così sistemata, esaltava le curve del corpo femminile e creava un lungo strascico dietro la figura. A Massa il ricordo di Teresa Pamphilj Cybo è legato soprattutto alle grandi opere per la decorazione barocca del Palazzo Ducale e la costruzione della Villa della Rinchiostra. La duchessa ebbe anche un ruolo importante nell’amministrazione del ducato e, tra le varie iniziative, tentò di stabilire in città una manifattura della seta. Nel suo testamento, rogato il 3 maggio 1704, Teresa Pamphilj Cybo aveva disposto il “dono di tutte le sue vesti di broccato, seta, e altre simili, per poterne fare paramenti”: destinataria della donazione era la Chiesa di Nostra Signora delle Grazie, sul colle di Volpigliano, dove si conserva un’immagine miracolosa della Madonna a cui la famiglia ducale era particolarmente devota. In questa sezione della mostra è esposto un registro di Entrate e uscite della Chiesa delle Grazie, dove tra il 1709 e il 1718 si trovano interessanti annotazioni relative agli “abiti lassati alla chiesa dalla Serenissima Signora Duchessa”: alcuni di questi abiti furono fatti stimare dai mercanti di stoffe e poi venduti; altri furono riadattati per confezionare paramenti liturgici, come pianete e piviali. Le descrizioni dei capi d’abbigliamento, seppure sintetiche, permettono di trovare precise corrispondenze nel lascito testamentario di Teresa. Purtroppo nel corso del tempo l’antico patrimonio tessile del santuario è andato perduto e così anche le vesti della duchessa. Dai documenti sappiamo che il nucleo della donazione era composto principalmente di mantò e sottanini, abbinati in base al colore e realizzati in tessuti di seta impreziositi da pizzi d’oro e d’argento.
Registro di entrata e uscita II (1708 - 1744), c. 52r
Fondo della Parrocchia di Nostra Signora delle Grazie in Massa Volpigliano
Annotazione di spesa in data 23 agosto 1715
"Adì 23 detto. Per fattura di una pianeta di damasco color / di rosa, fatta in un manto dell’abito lassati alla chiesa / dalla Serenissima Signora Duchessa di color di rosa rigato di bianco lire otto, / essendosi servito per fodera di un pezzo di taffetta / color giallorino delle medesime robbe come sopra, e per / guarnizione si servì del pizzo d’argento levato dal Pi/viale vecchio, avendo però comprato la franza d’intorno / alla medesima per L. 103, che assieme con la fattura importa L.111”
Ritratto femminile
Ambito genovese,
1675–1700 circa,
olio su tela, bottega d’Arte di Corrado Lattanzi
Il dipinto proviene dalla famiglia Micheli Pellegrini di Carrara, da cui lo acquistò l’artista antiquario Danilo Lattanzi. Raffigura una dama, tradizionalmente identificata nella contessa Violante Lizzoli (1736-1782) moglie di Michelangelo Micheli. Ma l’aspetto della gentildonna e la foggia del suo abito suggeriscono una datazione antecedente. La dama indossa una mise caratteristica della seconda metà del Seicento, in linea con la moda francese nata alla corte del Re Sole. La decorazione dell’abito è creata soprattutto dai merletti: un’ampia bavera di trina cinge le spalle della donna e altre trine, più piccole, sottolineano la forma delle maniche e del corpetto stagliandosi sul tessuto scuro. I forti contrasti cromatici rispecchiano il gusto seicentesco, che contraddistingue non solo l’abbigliamento ma l’immagine femminile nel suo complesso: il candore della pelle è esaltato dalla cipria mentre i capelli si preferiscono scuri, tanto da ricorrere alle tinture. I caratteri formali del ritratto fanno pensare ad un autore di ambito ligure; l’ampio utilizzo dei toni bruni, la pennellata corposa e l’attenzione alla definizione dell’abito ricordano la maniera di Niccolò Maria Vaccaro
(1659-1720), pittore genovese recentemente riscoperto dalla critica.
Velo del calice
1760–1780, lampasso fondo in taffetas azzurro e lilla cangiante, broccato in seta policroma e filati metallici in argento, dalla Chiesa dei Santi Jacopo e Antonio, Fivizzano
Il tessuto presenta una decorazione floreale con mazzolini alternati con un sinuoso motivo a pizzo, disposti con andamento verticale e alternati in orizzontale. Questa tipologia decorativa, tipicamente settecentesca, è una delle più diffuse nella realizzazione di capi di abbigliamento, soprattutto femminili. Il caratteristico effetto cangiante è dato dall’intreccio di orditi azzurri e trame rosa. Il tessuto è di probabile manifattura veneziana.
Velo del calice
1750–1760 circa, taffetas marrone scuro, broccato in seta policroma e filati metallici in argento,
dalla Chiesa di San Giovanni Battista, Villafranca
Il tessuto presenta una decorazione floreale con elementi carnosi caratterizzati da una ricerca dell’elemento realistico tridimensionale. Il tessuto è di probabile manifattura veneziana.